LANDULFO (Landolfo), Pompeo.
[Silvia Sbardella - Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)]
Non si conosce la data di nascita di questo pittore nativo di Maddaloni, presso Caserta, operante principalmente nei decenni a cavallo tra il XVI e il XVII secolo. Di lui De Dominici ricorda le origini nobiliari: egli era infatti figlio di Isabella de Agostino e del nobile Paolo, i cui capitoli matrimoniali, conservati presso l'Archivio di Stato di Caserta, recano la data dell'8 febbr. 1567 (cfr. Sarnella Palmese, 1996, p. 207, al quale si fa riferimento dove non altrimenti indicato).
Nel tratteggiare la personalità del L. sia Celano sia De Dominici sottolineano la sua dipendenza formale e stilistica dai modi di Giovan Bernardo Lama, del quale fu allievo. Sebbene sia ormai accertato l'alunnato, documentato però solo a partire dal 1588, presso la bottega napoletana di Silvestro Buono e di Lama, non ha ancora trovato conferma la notizia di un suo presunto matrimonio con una figlia di quest'ultimo.
Il suo alunnato dovette iniziare nei primi anni Ottanta, quando probabilmente ebbe anche inizio la fase di intensa collaborazione tra Buono e Lama, riconosciuti come i principali fautori e promotori in ambito partenopeo di una pittura di forte matrice devozionale e controriformata.
È stata ipotizzata (Leone de Castris, p. 744) la partecipazione del L. in alcune opere significative di Buono come l'Annunciazione di Piano di Sorrento (firmata e datata 1582), o quelle di S. Maria dei Miracoli di Andria e del Museo nazionale di Capodimonte; mentre fu presumibilmente a fianco di Lama nel Cristo fra i dottori di Capodimonte e nella Pentecoste dello Spirito Santo a Sant'Antimo. Vengono tradizionalmente attribuiti al solo L. la Madonna con i ss. Giovanni Battista e Domenico in S. Lorenzo Maggiore a Napoli e le due versioni della Natività per S. Gregorio Armeno e S. Paolo Maggiore nella stessa città, opere nelle quali sono tangibili, accanto alla pedissequa imitazione dei modi dei suoi maestri, anche spunti e ascendenze dalla coeva pittura fiamminga.
In un documento del 1591 egli figurava ancora come "creato" di Lama; mentre l'anno successivo fu il padre a stipulare per conto del figlio un contratto (datato 18 nov. 1592) per una non meglio precisata opera. Il 1593 fu l'anno che segnò l'emancipazione professionale del L.; infatti il suo nome affiancato dalla qualifica di "pittore" compare in un conto a lui intestato presso il Banco di Ave Gratia Plena.
Gli anni Novanta sono inoltre caratterizzati da una prima serie di incarichi personali che il L. comunque continuò a condividere con il maestro, dando adito, talvolta, a qualche dubbio attributivo, come nel caso della discussa pala dell'Annunciazione del 1592 per la chiesa del Ss. Corpo di Cristo di Maddaloni, ritenuta in passato di Lama e oggi restituita al Landulfo. In questo dipinto e nella successiva Adorazione dei magi della chiesa napoletana di S. Pietro ad Aram, firmata e datata 1595, e per la quale il L. ripropose arricchendolo lo stesso schema compositivo dell'Annunciazione, ritorna tutta una serie di elementi tipici dello stile aggraziato e composto di Lama: panneggi morbidi e impreziositi da ricami sofisticati, composizione didascalica e convenzionale, espressività contenuta.
Dal 1595 e fino al 1620 sono documentati, nei registri dell'Archivio storico del Banco di Napoli, pagamenti delle pigioni per una bottega che il pittore aveva preso in locazione nei pressi del convento dell'Annunziata di Napoli; mentre dal 1596 in poi risulta affittuario insieme con il fratello Giovan Vincenzo delle gabelle quietate dalla duchessa di Maddaloni (p. 211).
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta gli impegni nella sua città natale divennero sempre più pressanti. Tra il 1597 e il 1598 dipinse ancora in collaborazione con Lama la tavola con Lo sposalizio della Vergine per la chiesa del Ss. Corpo di Cristo. Al 1598 sono documentati alcuni pagamenti anche per l'esecuzione della Madonna in trono tra s. Martino e s. Fede della chiesa di S. Martino Vescovo e per la pala di S. Aniello tra i ss. Pietro e Biagio, originariamente destinata alla chiesa di S. Aniello, ma oggi conservata presso quella del Ss. Corpo di Cristo.
In queste opere, sebbene ricorrano ancora formule compositive già sperimentate e collaudate nei decenni precedenti sia da Buono sia da Lama (si veda la ricorrenza dell'impianto rigorosamente gerarchico e piramidale delle scene), si registrano però alcuni timidi tentativi da parte del L. di conseguire soluzioni pittoriche più autonome, rilevabili per esempio nello sforzo di conferire ai personaggi una maggiore caratterizzazione fisionomica.
Dell'anno seguente è la commessa per una pala destinata ancora alla chiesa del Ss. Corpo di Cristo; nella documentazione non si fa alcun riferimento al soggetto del dipinto, ma è assai probabile che questo vada identificato con il polittico dell'altare maggiore. L'opera, poco leggibile a causa delle numerose ridipinture che offuscano lo strato pittorico originale, è composta da un grande riquadro centrale raffigurante l'Ultima Cena, per la quale il L. rielaborò, in una soluzione prospetticamente più equilibrata, uno schema già adottato per l'Ultima Cena di Vitulano (firmata e datata 1596), e da dieci riquadri minori in cui sono riprodotti i momenti salienti della Passione di Cristo, dalla lavanda dei piedi fino alla deposizione.
All'inizio del Seicento il L. fu ancora impegnato presso la chiesa del Ss. Corpo di Cristo: al 1602 sono infatti databili il Cristo portacroce (unica tra le opere maddalonesi a recare la firma dell'artista), la Madonna dell'Arco e la Madonna del Carmine con s. Caterina. In questi dipinti e nelle successive opere destinate alla chiesa del Corpus Domini di Gragnano, la Madonna delle Grazie e la S. Lucia rispettivamente del 1604 e del 1609, se da una parte è possibile rilevare un consolidamento delle inclinazioni manieriste e devozionali del suo stile, dall'altra è possibile constatare come si sia fatta strada la tendenza a una pittura più articolata sotto il profilo spaziale.
Tra il 1611 e il 1616 sono documentabili diverse opere sia per istituzioni religiose sia per la devozione privata (p. 211).
Nel 1620, anno in cui si registra l'ultimo pagamento per l'affitto della bottega napoletana, l'artista fece definitivo ritorno a Maddaloni, dove si sistemò in una lussuosa casa sita proprio nei pressi della chiesa del Ss. Corpo di Cristo.
Il L. morì nell'ottobre del 1627 lasciando eredi dei suoi beni e dei suoi possedimenti, meticolosamente descritti in un inventario del 28 ottobre dello stesso anno, la moglie Isabella Cannata di Maddaloni e la figlia Giuditta.
Fonti e Bibl.: C. Celano, Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli, Napoli 1626, pp. 93, 1197, 1296; B. De Dominici, Vite de' pittori, scultori ed architetti napoletani, II, Napoli 1742, pp. 124-127; G. D'Addosio, Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e XVII secolo, in Arch. stor. per le provincie napoletane, XXXVIII (1913), pp. 240 s.; Id., Documenti inediti di artisti napoletani del XVI e XVII secolo, ibid., XLIV (1919), p. 35; G. Previtali, La pittura del Cinquecento a Napoli e nel Vicereame, Torino 1978, pp. 76, 91 s.; P. Leone de Castris, La pittura del Cinquecento nell'Italia meridionale, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, II, Milano 1990, pp. 490, 492, 744; G. Sarnella Palmese, P. L. pittore manierista. Documenti dal 1592 al 1627, in Riv. stor. del Sannio, s. 3, III (1996), pp. 205-216; Id., La chiesa del Ss. Corpo di Cristo di Maddaloni dalla fine del Cinquecento a tutto il Settecento, ibid., VII (2000), pp. 69-73; U. Thieme - F. Becker, Künstlerlexikon, XXII, p. 306.